Un tizio mi scansò con una spallata e corse veloce sulle scale mobili; lì capii che esistevo anche per gli altri. Esistevo eccome, sì. Ma esistevo come volume, densità e peso, tanto che credetti per un momento che volessero misurarmi per bene, magari usando metro e bilancia, anzi, calibro e dinamometro – sia mai essere troppo grossolani.
È così che vanno le cose in città, mi avevano avvertito. A nessuno interessa chi sei, a cosa pensi, cosa senti; l’importante è che tu, agglomerato di molecole sudanti, ti sposti subito, che devo andare a lavorare. In metropolitana, al supermercato e persino nel cortile condominiale tutti si lanciano sguardi oggettificanti: mentre l’altro mi guarda smetto di essere una persona per diventare una cosa, una cosa che fa determinate cose fra altre persone, le quali sono altre cose. Se lungo i marciapiedi sono poco più che un corpo che ostruisce il passaggio a un lavoratore irritato, quando mi rivolgo a un cliente dal call center sono un rumore meccanico che si vuole presto sopprimere.
Poi sicuramente c’è qualcuno che si impegna di più e oltre a un primo sguardo cerca di intuire i tuoi pensieri dal corpo, dai vestiti e dall’espressione che rendi pubblici. Un’attività lodevole, si potrebbe pensare. Gli scrittori fanno qualcosa simile quando cercano di mettere su carta i pensieri della gente incrociata per strada: quel vecchio corrucciato che tossisce e respira in affanno starà sicuramente maledicendo gli anni di tabagismo sfrenato; quel ragazzo che passeggia piano lungo la banchina e sorride fra sé aspettando il tram non può che essere in attesa di una serata in dolce compagnia. Sono supposizioni interessanti, talvolta corrette, può darsi; ma non fanno altro che rendere quelle persone delle comparse, cioè semplici e monocromatiche tessere di un mosaico che fa da sfondo alle figure dei protagonisti, i quali sono invece profondissimi e sfaccettati.
Ecco, avrei voluto essere un protagonista in questa città. O, se non altro, avrei voluto non essere più una comparsa. Tuttavia ciò era impossibile, perché nessuno fra quei distaccati sguardi cittadini poteva arrivare a toccare la mia essenza di persona. Nessuno poteva vedere, sentire o immaginare gli scampanellii e i fischi che udivo e tutt’oggi odo solo io nel privato della mia soggettività, e che dalla tarda adolescenza spesso ordiscono la trama del mio agire all’oscuro dalle apparenze esteriori.
Quando vivevo con la mia famiglia, chiunque era al corrente dei due suoni che imperversavano nelle mie orecchie: i miei genitori, gli zii, i cugini e, a dirla tutta, l’intero paesino in cui abitavo. Tutti sapevano che era un allegro e squillante scampanellio a tenermi sveglio la notte mentre venivo pervaso da un’incontenibile ispirazione letteraria. Prendevo la penna e scrivevo senza sosta fino al suono della sveglia; poi a scuola procedevo con il lavoro, ignorando le lezioni. Continuavo così, accompagnato da un concerto fisso e martellante nelle orecchie, per settimane, evitando cibo e sonno. Alla fine del processo mi ritrovavo con pile di racconti sconclusionati e un unico, continuo fischio impenetrabile, come sibilo di un vento monotono e densissimo; quindi i miei sensi si appannavano e affogavo esanime nel letto, per mesi.
I miei famigliari, accettando di non poter zittire quei suoni con alcun farmaco, mi proposero uno psicologo che mi aiutasse almeno a conoscerli e a controllarne gli effetti sui miei comportamenti. Comunque, in generale, non vi fu un solo momento in cui i parenti o i paesani, semplice e affabile gente di campagna, mi fecero pesare il mio particolare modo d’essere, tanto che mi sentii sempre incluso nella seppur modesta vita sociale del posto. Ero strano, ero instabile, ma ero io, ed ero a mio agio nella nudità con la quale mi mostravo agli altri.
Scampanellii e fischi divennero una parte di me; ancora adesso, a distanza di quindici anni dalla loro prima insorgenza, ritornano spesso, frenetici, irruenti e caotici.
Fissai a lungo quell’uomo, finché non sparì oltre le scale mobili. Volevo vedere attraverso l’epidermide di falsità che lo avvolgeva: forse anche lui era in preda a un qualche recondito acufene; ma come potevo scoprirlo con uno sguardo così superficiale? Di colpo realizzai che così come io subivo lo sguardo dell’altro su di me, così l’altro subiva il mio su di lui. Dovevo subito fuggire da quella bolla alienante in cui ero cascato un anno prima, quando mi ero trasferito in città.
Uscii dalla metropolitana e mi diressi il più in fretta possibile verso il mio appartamento. Era già molto tardi e sarei dovuto andare a dormire, ma ormai lo scampanellio mi aveva avvertito: quella sera doveva avvenire la svolta.
Entrai in casa, accesi il computer e cominciai a inviare richieste a ogni corso ed evento sociale che trovai online. Il cambiamento fu immediato: nel mese successivo partecipai a corsi di teatro, andai ad allenarmi in palestra, organizzai personalmente uscite con i colleghi e frequentai diverse ragazze. Socializzare mi sembrava la maniera più naturale per conoscere davvero le persone in quanto persone, e non in quanto cose. Tuttavia fu soltanto nella compagnia di una mia collega che trovai il tipo di connessione che andavo cercando. Ci vedevamo spesso in gruppo o da soli, e lei cominciò presto a confidarmi i suoi pensieri e i suoi problemi personali: le liti con la madre iperprotettiva, la morte prematura del fratello, le sue tendenze suicide e molto altro. Incantato da tutta quella sincerità mi venne spontaneo parlarle di me. I due suoni che per mesi avevo patito in solitudine fra gioie e dolori emersero finalmente di fronte a un’altra coscienza, e così, quasi da un giorno all’altro, mi sentii come se mi fossi riappropriato della mia interiorità in precedenza annichilita dagli sguardi metropolitani. Grazie a quella ragazza sembrava che la mia tangibile corporeità fosse tornata a coincidere con la mia inafferrabile mente in un’assoluta coerenza esistenziale, proprio com’era stato negli anni vissuti in campagna. Ecco quindi che quella sensazione di unità e completezza rianimò la nostalgia degli armoniosi tempi andati: serviva un ultimo simbolico gesto che unisse un passato che non volevo perdere con un presente che avevo appena conquistato.
Alla luce di quei pensieri, decisi che dovevo rivedere i miei genitori. Non tornavo spesso in paese da quando mi ero trasferito; molti amici se n’erano andati per lavoro, come me, quindi passavo solo di rado per trovare i miei.
Presi il treno un pomeriggio di fine novembre e dopo quattro ore arrivai al paesino. Le viuzze selciate erano deserte e una pioggia sottile e fredda impregnava l’aria d’indifferenza; perciò scappai in fretta dentro casa, cercando calore umano.
La serata era stranamente silenziosa: i miei mangiavano zitti e guardavano basso verso il piatto di polpette al sugo. Pensando di ravvivare gli animi, presi l’iniziativa e raccontai loro della mia nuova ragazza, di quanto mi stava aiutando nella vita cittadina e, insomma, di come stavo gestendo bene gli acufeni grazie a lei.
«Hai ancora quei suoni?» chiese mia madre come colta alla sprovvista.
«Sì, certo, lo sai che non posso guarire», risposi con altrettanto stupore.
«Non ne sono così sicura. Forse basterebbe mangiare un po’ di più, sai. Poi che ne so, magari i suoni te li immagini e basta. Di sicuro non ti farebbe male un po’ di ferro e calcio».
Non aggiunse altro e si versò del vino. Mio padre continuava a mangiare in silenzio.
Guardai le polpette coperte di sugo: sembravano una massa indistinta di cadaveri in un bagno di sangue. In quell’istante sentii lo sguardo di mia madre calarmi addosso impietoso, in attesa che dicessi qualcosa. Fu allora che mi attraversò il dubbio che nessuno in quella stanza, né quelle palline di carne nei piatti né la nostra carne umana semovente, fosse in grado di pensare o sentire alcunché; eravamo cose, come gli omini in città.
«Hai ragione, mamma.» annunciai poco dopo, «Starò attento all’alimentazione».
Finimmo la cena senza sprecare altre parole.
Nel buio di quella notte di campagna lo scampanellio scomparve e venne sostituito da un lugubre fischio che fino a pochi giorni fa mi ha fatto una molesta compagnia. Non saprò mai dire chi prese le redini della mia vita dopo quella sera: io o quel fischio spaventoso? Forse tra le due entità non c’è nemmeno differenza. In ogni caso, appena tornato in città abbandonai la mia ragazza e mi asserragliai al baluardo della mia solitaria soggettività, proteggendo in segreto i due suoni dai fraintendimenti degli sguardi altrui.
Adesso, mentre scrivo queste righe, sono attorniato dal silenzio; eppure so che prima o poi un urlo improvviso rimbomberà nel mio cranio e mi sentirò di nuovo come se fossi nella mia accogliente casa adolescenziale. “Il vero me non mi abbandonerà mai”, mi ripeto per autoconvincermi.
Intanto fuori dalla finestra l’inverno è gelido e mi guarda con occhi vitrei.
Cucinerò qualcosa per riscaldarmi un po’.