Francesco era un ragazzino di 11 anni molto intelligente e curioso, e sin dalle elementari aveva dimostrato un grande senso del dovere e una imperterrita diligenza nei confronti della scuola. Egli però non era solo bravo a studiare sui libri di scuola: persino nel tempo libero era infatti solito immergersi nell’approfondimento di svariati argomenti extrascolastici, così da essere sempre gravido di storie e aneddoti che poi andava a riversare con passione nei temi e nelle verifiche. Gli insegnanti avrebbero avuto piacere nel sentirlo parlare di quelle sue scoperte di fronte alla classe: forse sarebbe stato un modo per stimolare allo studio i suoi compagni più scansafatiche. Francesco però era molto timido e centellinava le parole con chiunque, figuriamoci di fronte a una platea di 20 coetanei. In ogni caso lui si sentiva indubbiamente orgoglioso dei suoi interessi, ed era piuttosto sicuro che dietro ad ogni “eureka!” dei suoi amici ci fosse qualcosa che lui già sapeva.
Il lettore potrebbe ora pensare che il nostro protagonista fosse in qualche modo lo stereotipo del secchione che passa tutte le giornate sui libri, senza riuscire a integrarsi socialmente. Sgombrerò quindi la mia narrazione da ogni equivoco: Francesco era sì timido, silenzioso e studioso, ma in nessun modo si può dire che fosse chiuso in sé stesso e reclinato su una scrivania a imparare nozioni per riempire un vuoto di affetti. Egli si affidava alla compagnia di pochi ma fidati amici e alle cure della sua dolce e protettiva famiglia; nel profondo del suo animo sapeva di non avere bisogno di nient’altro: lui era felice così.
Tuttavia si sa che ogni giovanissimo – adolescente o preadolescente che sia – va incontro a dei cambiamenti radicali che spesso sconvolgono l’armonia della sua vita. È inutile perciò che spenda altre parole nel descrivere l’apparente eterna imperturbabilità di un undicenne, e mi avvierò subito a raccontare quando e come questa imperturbabilità fu infranta irrimediabilmente.
Tutto ebbe inizio una mattina scolastica qualunque, durante l’intervallo; i compagni di Francesco si erano riuniti sul fondo del corridoio e parlavano concitatamente di qualcosa. Non potendo non udirli mentre usciva dal bagno, Francesco capì che l’oggetto della discussione era un centopiedi, un centopiedi molto particolare chiamato scutigera coleoptrata. Aveva già sentito parlare di quell’animale, ma doveva riconoscere di non saperne nulla, così come non era mai riuscito a vederne un esemplare, nonostante fosse molto diffuso dalle nostre parti. I ragazzini ne parlavano come se avessero scoperto una miniera d’oro e ognuno di loro raccontava eccitato le proprie esperienze delle volte in cui l’aveva incontrato.
Allarmato dal fatto di non essere informato come i suoi compagni, quel pomeriggio stesso Francesco si affrettò a fare una ricerca sulla scutigera. Il centopiedi in questione è dotato di un lungo corpo grigio-giallastro da cui spuntano 15 zampette; vive in ambienti tendenzialmente freschi e umidi, ma lo si può trovare in ogni angolo di una normale abitazione, quasi sempre nascosto agli occhi indiscreti. Guardando qualche immagine della scutigera, Francesco ne rimase vivamente disgustato, non potendo capacitarsi di come un essere immondo di quel tipo potesse aggirarsi nelle case – anche nella sua di casa – così indisturbato. Continuando a informarsi, scoprì con sorpresa che quel mostriciattolo è del tutto inoffensivo per l’uomo e che solo in rari casi ci può mordere, solitamente senza recare gravi danni. Piuttosto, qualunque sito internet consigliava di non uccidere la scutigera, per la semplice ragione che essa è insettivora e quindi può essere d’aiuto nel liberarsi di altri insetti fastidiosi che tendono a insediarsi nelle abitazioni e talvolta a infestarle, come nel caso di cimici, formiche, termiti, pesciolini d’argento e zanzare. Insomma, non solo quella bestia rivoltante non è pericolosa, ma addirittura è un bene da preservare, qualcosa che, se si impara a conviverci, può persino rendersi utile nel combattere ciò che davvero ci dà problemi.
A Francesco quest’intera questione appariva alquanto grottesca e inquietante, in quanto vi era in essa qualcosa di estraneo e familiare allo stesso tempo, come se la scutigera fosse sia un’entità esterna e lontana da lui, sia qualcosa a cui era legato inscindibilmente. Comunque non si volle soffermare oltre in riflessioni deliranti e tornò ai suoi impegni quotidiani.
Un ragazzino che si interessa di animali schifosi, che c’è di rilevante? Probabilmente sarei d’accordo con questa obiezione, se solo la scutigera non fosse diventata, nel giro di poco tempo, l’oggetto di una così sconvolgente fobia nei pensieri di Francesco. Molti di noi già sanno cosa vuol dire fare esperienza di una fobia, una fobia magari nata all’improvviso e presto pronta a perseguitarci giorno dopo giorno. Non è chiaro come essa insorga, ma forse basta che un’immagine, una frase colta per caso o una qualsiasi altra imprevedibile e traumatica suggestione precipiti come un seme maligno nella nostra fragile e fertile coscienza perché una fobia possa germinare, poi crescere, irrobustirsi, ramificarsi ed estendersi fino ad essere tanto ingombrante da non poterla più ignorare. È un processo di cui nemmeno ci si accorge, perché quando ciò avviene, una perversa angoscia si è già avvolta attorno a noi come una pianta rampicante che stringendoci coi suoi rami ci toglie il respiro, mentre lei tenta soltanto di aggrapparsi a qualcosa che la sostenga e la faccia sopravvivere.
Francesco non poteva sapere di avere ricevuto il seme della fobia, mentre davvero nessuno potrà mai sapere se ciò accadde quand’egli fece quella ricerca sulla scutigera o addirittura molto tempo prima.
Una cosa però è certa: la sua mente non sarebbe stata soffocata da una crudele pianta, ma da qualcosa di ferino e indomabile.
Ci vollero un paio di settimane ma infine, in un momento di noia mentre stava disteso sul letto della sua cameretta a fine serata, Francesco si ritrovò a rimuginare sull’ignobile centopiedi: “E se entrasse nel letto mentre dormo? Mi morderebbe? Farà male? Non ci credo che è innocuo. E se poi si riproducesse? Se infestasse la mia camera? A quel punto diventerebbe lui il problema; altro che insetticida provetto! Forse è già qui in giro da qualche parte. Lo sento, lo sento che è qui, è qui che si nasconde e mi vuole fare del male…”
Per controllare il panico cercò di distrarsi mettendosi a leggere dei libri presi a caso da uno scaffale. Non avendo successo, provò allora a convincersi che la sua era una fissazione irrazionale e infondata, per non dire ridicola; in questo modo riuscì persino a farsi una mezza risata fra sé e sé, salvo poi notare che l’angoscia era più forte di ogni ragionamento e che essa tornava ogni volta a fare capolino nelle sembianze minacciose della scutigera, come in un circolo vizioso del pensiero. Prigioniero della sua stessa mente, Francesco non riusciva ad acquietarsi e si mise a battere i pugni sul letto, sul muro, su di sé, non trovando la chiave per evadere da quel suo male interiore. La notte era ancora lunga e solo quando fu sfinito dal lavorio della fobia, Francesco cadde in un sonno profondo.
Questa dinamica si ripeté per svariate serate successive, a volte in maniera più blanda, altre volte con grande sconquasso emotivo.
Perché si era così fissato su quell’animale? Di primo acchito diremmo che lo temeva e che l’avrebbe evitato a qualsiasi costo. E se invece lo stesse desiderando inconsciamente, come in preda a un impulso caotico e autodistruttivo? E perché allora, se lui viveva con il terrore di incontrare la scutigera, le altre persone al contrario sembravano estranee a quell’angoscia?
Senza dubbio anche Francesco si era posto simili questioni nei momenti di maggior lucidità, e si rendeva conto di non poter trovare una soluzione da solo, nonostante la sua intelligenza fuori dal comune. Sapeva di avere la possibilità di rivolgersi ai genitori, ma non aveva mai davvero parlato con loro delle sue “turbe psichiche” – forse anche perché non ne aveva mai avute – e non se la sentiva di farlo ora, specie con quei pensieri così stupidi e insensati.
Preferì quindi arrangiarsi senza l’aiuto altrui, sopportando ciò che c’era da sopportare fino a quando non sarebbe svanito tutto da sé.
Tuttavia, di lì a poco, la vicenda si sarebbe inaspettatamente evoluta, lungi dallo scomparire nel passato come un brutto ricordo.
Un pomeriggio di quelle difficili giornate, Francesco invitò a casa sua il suo amico Antonio per studiare. Non era una cosa che aveva fatto spesso in precedenza, ma ultimamente era convinto che passare del tempo con gli amici l’avrebbe aiutato a distrarsi dai suoi pensieri contorti.
Trascorsa un’oretta di studio, Antonio interruppe la sessione: «Possiamo continuare dopo? Avrei una cosa da farti vedere».
«Ok,» disse controvoglia Francesco, «sbrigati però.»
Antonio non esitò e aprì la cartella, tirandone fuori una rivista che sbattè sul tavolo.
«Ecco,» esclamò ridendo, «questo è quello che serve quando manca la connessione a Internet!»
Francesco si immobilzzò qualche secondo senza sapere bene come reagire, un po’ in imbarazzo, un po’ in agitazione; poi si rivolse irritato all’amico:
«Sei scemo? Cosa porti queste cose in casa mia? Lo sai che tra poco torneranno i miei».
«E dai, sono solo tette!» rispose Antonio mentre con la più totale disinvoltura mostrava la rivista all’amico. «Sai cosa ti dico?» riprese poco dopo, «Questa te la presto. Ridammela pure quando vuoi, ma intanto divertiti.»
«No, grazie, non mi interessa. Tienitela pure.»
«Come fa a non interessarti? Questa roba l’ho trovata nella cantina di casa mia; dev’essere stata di mio padre. In pratica negli anni ’80 si segavano su queste cose qui. È un pezzo di storia!»
Francesco non aveva per nulla previsto una situazione del genere. Mai avrebbe immaginato che il suo mansueto amico Antonio fosse tanto disinibito da fare e dire cose del genere, e lui stesso ora si sentiva partecipe di un atto subdolo, se non criminoso, da cui voleva al più presto tirarsene fuori.
«Non ne ho bisogno, ok? E poi non saprei dove tenerla…»
«Oh sì,» rispose Antonio squadrando l’amico, «ne hai bisogno. E per nasconderla troverai il modo, lo trovano tutti il modo.»
Dopo quelle parole disse che doveva tornare a casa e salutò Francesco con grande fretta, come se ormai avesse finalmente raggiunto il suo obiettivo e non ci fosse più nient’altro da fare.
Una volta solo, Francesco prese immediatamente la rivista e fece per buttarla; poi, di fronte al cestino, si fermò. Non poteva certo gettarla assieme a tutta l’altra carta: i suoi genitori l’avrebbero notata. Ancora con l’ansia in corpo diede un’occhiata all’oggetto incriminato, nel tentativo di farsi venire un’idea. Senza prestarci troppa attenzione cominciò a sfogliare. Non era mai entrato a contatto con quel “mondo”, ma di nuovo la sua incontenibile curiosità fu più forte di ogni altra emozione del momento. Andò a pagina uno, pagina due, pagina tre, quattro, cinque e così via fino a quando, d’un tratto, intuì che la curiosità che lo spingeva a guardare quella rivista aveva una forma diversa da quel desiderio di sapere a cui era sempre stato avvezzo. Allora cominciò a scrutare i dettagli dei corpi, le capigliature e le pose con la stessa attenzione di un impaziente archeologo che, pur cercando di scoprire il segreto che si cela dietro un reperto antichissimo appena portato alla luce, desidera anche capire che cosa quell’oggetto impolverato gli stia intimamente comunicando, in che modo esso lo riguardi, quale via gli stia suggerendo di percorrere per raggiungere nient’altro che la conoscenza di sé stesso. Dopo aver continuato così per diverse pagine, si soffermò su una modella che l’aveva colpito in maniera particolare. Ella stava in piedi, completamente nuda, appoggiata sul fianco destro a lato di una grande finestra; con il viso disteso e sereno guardava attraverso i vetri chissà dove, sembrando non curarsi o non accorgersi dell’obiettivo che la immortalava, come se si fosse persa in fantasticherie amorose della più giovane e innocente specie. Da un lato sembrava messa lì per caso, distante ed emarginata dalle altre ragazze della rivista che invece si esponevano più consapevoli della loro presenza voluttuosa; dall’altro era la rappresentazione più spontanea, femminile e sensuale che si potesse ambire di trovare tra quelle pagine.
Senza capire il perché, Francesco avanzò timidamente una mano verso l’interno coscia e cominciò a toccarsi, salendo poco a poco verso il pube. Sentì il suo corpo tremare e il cuore battergli forte, ma ormai non riusciva più a controllarsi. A quel punto, vedendosi ancora in piedi di fronte al cestino della sua cameretta, decise, con la più cieca delle decisioni, di spostarsi in bagno.
Una volta in bagno appoggiò per un momento la rivista a terra, poi calò i jeans e si sedette sul water. Sentiva di stare facendo qualcosa di sbagliato, ma dopo un ultimo momento di esitazione si lasciò andare, convinto che non avesse altra scelta. Quando però riprese la rivista appoggiandola sulle ginocchia, Francesco sentì il petto contrarsi e il respiro venirgli risucchiato da fuori, mentre con lo sguardo fissava impietrito la pagina di prima, ormai violata: lì, sull’immagine che l’aveva eccitato, c’era adagiata una piccola scutigera. Il centopiedi fece uno scatto rapidissimo verso il bordo della pagina e in tutta risposta Francesco chiuse di colpo la rivista, gettandola a casaccio contro il muro.
Non si mosse più nulla.
Pochi secondi dopo si sentì aprire la porta d’ingresso: la madre era tornata. Senza aver potuto riprendere fiato, Francesco riagguantò la rivista e la infilò nei pantaloni, come momentaneo nascondiglio. Della scutigera non sembrava esserci traccia da nessuna parte.
Per diversi minuti ancora, Francesco rimase turbato e spaesato, tanto da ritrovarsi a passeggiare nervosamente in tondo in camera sua. Alla fine, non riuscendo a dissimulare l’irrequietezza di fronte alla madre, si vide costretto a dirle che c’era un animale in bagno e che non era riuscito ad ucciderlo.
«Che animale?» chiese pacata la madre.
«Non lo so, tipo un bruco» rispose Francesco, che ancora una volta non se l’era sentita di confessare la sua fobia.
«Un bruco in bagno? Mi sembra strano. Dai, stasera faremo controllare al papà. Tu stai tranquillo.»
Bruco o scutigera che fosse, nessun animale venne più ritrovato e per i genitori la questione cadde subito nel dimenticatoio.
Al contrario Francesco, come si poteva intuire, continuò a ritornare col pensiero alla scutigera, a quel loro primo incontro, a quell’orribile sensazione che aveva provato nel vederla, e si chiedeva con paranoia in quale vicolo oscuro e torbido della sua casetta si fosse infilata, senz’altro pronta a tendergli qualche agguato. Ormai nemmeno provava più ad allontanare la fobia ragionando su quanto fosse totalmente insensata. Adesso l’unica cosa che desiderava era la certezza che non avrebbe mai più incontrato quell’essere spaventoso, ma sapeva bene che quella certezza sarebbe stata ardua da ottenere.
Che fare? Egli smise di porsi la domanda, abbassò la testa in penitenza e andò avanti a vivere.
Passarono gli anni e Francesco crebbe più o meno serenamente, come più o meno serenamente crescono molti ragazzi.
In seguito alle scuole medie si iscrisse al Liceo, e la sua carriera scolastica proseguì brillantemente senza intoppi. Durante quegli anni trovò molte amicizie, a volte buone, a volte cattive, ma che in ogni caso lo resero più maturo nelle relazioni sociali. Era sano e in forze, e nessuno avrebbe mai sospettato che nel suo puro animo fosse turbato dallo spettro di una grave fobia, la quale non aveva smesso di bussare furiosamente alla sua porta.
Certo, la situazione era migliorata rispetto agli anni delle medie, durante i quali Francesco evitò persino di masturbarsi nel terrore di rivedere la scutigera, ricordando quel giorno in bagno con la rivista di Antonio. Ora che era adolescente sembrava aver imparato a temere di meno il centopiedi, se non persino a concepirlo come parte della sua normalità; le sue reazioni si erano fatte più pacate, sia che vedesse l’animale, sia che esso si presentasse solo nei suoi pensieri.
Purtroppo però una fobia di quel tipo è difficile da sradicare, e lo stesso Francesco lo constatava ogni qual volta essa veniva a fargli visita di soppiatto: a letto mentre sognava, a casa quand’era da solo, a scuola con i compagni, in giro per il centro della città, in vacanza in montagna.
E proprio durante una vacanza in un paesino di montagna, Francesco si innamorò per la prima volta di una ragazza: Chiara. Lui, lei e altri vecchi amici in realtà si conoscevano da anni, siccome ogni estate tornavano tutti in quel posto sperduto tra le Alpi Orobie assieme alle loro famiglie. Solo quell’estate però, sulla soglia dei loro 17 anni, Francesco e Chiara erano diventati abbastanza maturi per trasformare la loro amicizia in qualcosa di più intenso.
Così com’era sempre stata tradizione, quasi ogni sera l’intero gruppo di amici si ritrovava per “cazzeggiare” in vari modi – cazzeggio che da qualche anno era diventato sempre più spesso correlato al consumo di alcol – e al termine del ritrovo ognuno se ne tornava a casa ad annoiarsi, con la testa già rivolta alla sera successiva.
Francesco e Chiara furono i primi a rompere quella routine, cominciando a vedersi anche nel pomeriggio per fare lunghe camminate nei boschi. Durante le loro gite, i due trovarono il tempo e lo spazio per parlare e conoscersi meglio, così che non tardarono ad arrivare tenerezze e baci. Francesco avrebbe voluto lasciarsi cullare da quell’amore idilliaco senza mai spingerlo oltre, un po’ per paura di infrangerlo, un po’ per timidezza, un po’ per pudore; ma non poteva ignorare il desiderio irrefrenabile che intercorreva tra lui e Chiara e che inevitabilmente li avrebbe condotti a scambi passionali più accesi. D’altra parte a lei non servì sentire Francesco dare voce a timori e desideri per capire come doversi comportare; perciò prese l’iniziativa e lo accompagnò in una casa disabitata vicino a uno dei loro percorsi di montagna.
Lì i loro corpi trovarono l’intimità necessaria per cercarsi con la bramosia di abbracci, baci e carezze, spogliandosi a vicenda prima delle inibizioni e poi dei vestiti. Fu allora che Francesco riconobbe nell’amata un’abbagliante bellezza carnale che mai aveva colto nel mondo sensibile, proprio come sei anni prima era rimasto sconvolto dalla bellezza della modella nella rivista di Antonio. Avendone percepito la presenza, rimase impassibile quando una lunga scutigera uscì dal sesso di Chiara e si mise a correrle morbosamente attorno ai fianchi con le sue implacabili zampette. Francesco ignorò la fobia dell’animale ancora per qualche secondo, cercando di farsi trascinare dalla corrente amorosa; ma alla fine la sua resistenza andò in frantumi, la passione si spense e si ritrasse dalla ragazza.
«Non senti qualcosa di sbagliato?» le chiese con affanno.
«No, perché? C’è qualcosa che non va? Ho fatto qualcosa di sbagliato?» replicò Chiara colma d’apprensione, mentre invitava Francesco a tornare da lei prendendolo per mano.
«Scusami, ma non posso continuare» disse lui con distrazione, e scappò via incamminandosi per i sentieri, senza che la ragazza avesse fatto in tempo a chiedergli altre spiegazioni.
Con la ferma e delirante determinazione di fuggire una volta per tutte da quel mostruoso centopiedi, attraversò luoghi a lui sconosciuti, allontanandosi dal paese e da Chiara per diversi chilometri, fino a quando fu troppo buio sia per procedere il pellegrinaggio, sia per tornare indietro.
Intorno a lui la radura si dispiegava priva d’umanità. Solo una piccola chiesa spiccava poco più in là, dietro a un gruppo di arbusti incolti; Francesco si avviò verso di essa per capire se si potesse alloggiare lì quella notte. All’interno dell’edificio c’era il buio più totale, fatta eccezione per un flebile lumino che però si spense non appena il ragazzo mise piede nel luogo sacro. Francesco si fece luce con la torcia dello smartphone: la chiesa era disadorna e fatiscente, ma c’erano alcune panche abbastanza larghe su cui potersi sdraiare e dormire. Stremato dal cammino, si sedette su una di queste, spense la luce e rivolse alla cieca lo sguardo verso l’altare e il crocifisso, mentre con la mente ripercorreva la terribile giornata appena trascorsa.
«Signore, potrò avere un po’ di pace, almeno per questa notte?» sussurrò in un bagliore di fede per lui inedita.
La sua voce riverberò brevemente fra le mura, affondando subito nella muta immobilità della chiesa, senza risposta. Proprio quando era sul punto di perdere i sensi per stanchezza e sconforto, in un fulmineo delirio allucinatorio un’immagine tanto angelica quanto lussuriosa di Chiara gli si palesò davanti. Francesco si ridestò, alzandosi di scatto per raggiungerla; ma nell’istante in cui si erse in quell’effimero slancio amoroso sentì qualcosa muoversi negli spazi di quel Sacro in putrefazione. Non gli servì controllare: sapeva che era quel qualcosa che aveva sempre vissuto come estraneo e familiare in egual modo; sapeva che era l’entità che per tutti quegli anni aveva percepito sia come esterna e lontana da sé, sia come qualcosa che gli apparteneva in maniera inscindibile.
Da tempo ormai aveva imparato a conoscerla e a temerla di meno, eppure solo allora la accettò come una parte di sé in tutte le sue forme.
Assieme alla scutigera, quella notte Francesco dormì sonni sereni.